Può esserci un terroir anche per il pesce?
E se ripensare al modo in cui siamo abituati a gustare il pesce potesse servirci a concepire una pesca più sostenibile? Siamo andati a trovare un’azienda che prova ad applicare nuovi concetti a una materia prima antichissima.
Il vino è furbo. Per dirla meglio: l’enologia, in particolare l’enologia francese, è stata abbastanza lungimirante da confezionare due concetti come cru e terroir, che pur nella loro elasticità, sono strumenti rapidi per ricordarci delle cose concrete. Ad esempio che c’è un insieme di condizioni geografiche, geologiche, climatiche e anche culturali che hanno la capacità di incidere sulle caratteristiche organolettiche del vino. Ricordarci che l’uva, cresciuta in un certo suolo e con un certo clima, avrà un gusto riconoscibile, che talvolta trascende la varietà di vitigno e le tecniche di vinificazione. Questo pensiero territoriale, che poi è stato applicato felicemente anche ad altri alimenti — in particolare l’olio, il formaggio, i salumi — viene di rado, per non dire mai, avvicinato al pesce.
Sul pesce, a meno di non essere dei cultori o dei tecnici, il principale criterio in grado di definirne la qualità è la freschezza, che poi comunque sono in pochi a saperla riconoscere. La provenienza, ad esempio, è descritta a livello commerciale solo dalle aree Fao, che sono abbastanza grandi da non essere gran che significative (il Tirreno, per dire, rappresenta un’unica area). E anche sul fronte della sostenibilità non vedo gran movimento, perché mentre abbiamo i mari in condizione di sotto stock, cioè con riserve ittiche molto compromesse, raramente di fronte al pescivendolo vedo le persone arrovellarsi sulle tecniche di pesca e sul rispetto di alcuni criteri di buon senso come la taglia minima e la stagionalità.
Per dare due dati di contesto, da un report del 2016 della European Environment Agency risulta che il 58% delle zone di pesca sono completamente pescate e il 31% sovra sfruttate. La pesca “non sostenibile” è praticamente la norma, arrivando al 50% nell’Oceano Atlantico nord-orientale e nel Mar Baltico, e oltre il 90% nel Mediterraneo e Mar Nero. In Italia c’è un giorno, che quest’anno è caduto il 31 marzo, in cui gli stock ittici nazionali si dichiarano virtualmente esauriti. Cioè: considerando la domanda complessiva del mercato interno, se dall’inizio dell’anno avessimo mangiato solo pesce italiano, dal primo aprile al 31 dicembre mangeremmo solo pesce importato. Lo chiamano Fish Dependence Day e anno dopo anno anticipa la sua data, da noi come in altri paesi: nel 2017 in Austria è stato il 20 gennaio, in Spagna il 9 maggio eccetera.
Dunque non può essere che siano due aspetti collegati? Che pensare il cibo a partire dal suo terroir ci porti a considerare in modo meno astratto il contesto ambientale e le precauzioni di sostenibilità a cui dovremmo attenerci per buon senso, sia chi pesca che chi mangia?
Mi faccio queste domande nel piacevole caos di Milano Golosa, mentre ascolto Luigi Crescenzi che mi parla del suo laboratorio artigianale di conserve di pesce. Sarà forse che mentre Luigi mi guida attraverso l’ultima annata delle sue conserve, io mi sento dentro a una verticale di assaggi; salvo che al posto dei bicchieri abbiamo delle forchette, e quello che stiamo percorrendo in verticale è un territorio, quello del mare intorno ad Anzio.
Il racconto di Luigi parte da lontano, perché nel Settecento Anzio era diventato uno dei porti più importanti del Mediterraneo, dove sono confluiti pescatori di varia provenienza in cerca di un porto sicuro e hanno mescolato le tradizioni locali con quelle di altre regioni come Sicilia e Campania. La pesca prevalente era di pesce azzurro, in particolare alici e sarde. Si pescava da maggio a settembre e tutto l’invenduto veniva messo sotto sale. “Quella della salagione era diventata una piccola industria artigianale ad Anzio — racconta Luigi — tanto che ci sono interi consigli comunali dedicati all’approvvigionamento di sale, specie col passaggio dallo Stato Pontificio al Regno d’Italia, quando tutti i contatti erano saltati e il Comune si muoveva freneticamente in cerca di forniture sufficienti.”
Luigi ha fatto queste e altre ricerche storiche per sviscerare tradizioni e peculiarità del territorio e renderle parte integrante della sua impresa. A cominciare dal nome dell’impresa: Manaide, che era una barca con scafo lungo e sottile, senza copertura, con 6 remi e una vela latina, dedicata alla pesca delle alici e delle sarde. E con lo stesso nome si indica anche una rete da posta, dove le alici e le sarde andavano a impigliarsi e perdevano gran parte dei liquidi quando erano ancora in mare, cosa che rendeva il processo di salagione più semplice e sicuro.
Manaide fa conserve di pesce dal 2013 e di nuovo Luigi mi fa pensare al vino, in particolare al vino naturale, quando dice: “anche se sono dei trasformati, la qualità delle conserve dipende tutta dalla materia prima che usi, cioè il pesce, ma anche l’olio e il sale per conservarlo. E poi la conservazione si fa tutta grazie al sale e alla temperatura: non aggiungiamo nessuna sostanza di sintesi, per capirci quegli antiossidanti e conservanti che cominciano per E.”
Per costruire l’offerta di Manaide, Luigi ha individuato delle specie con una stagionalità che gli permettesse di avere una continuità lungo tutto l’anno. Ci sono le alici, che si pescano da primavera fino a inizio autunno, il polpo moscardino e verace tra la fine dell’autunno e l’inizio dell’inverno, gli sconcigli (o murici) alla fine dell’inverno, e via così. Oltre che per la loro stagionalità, le specie sono state selezionate perché non rischiano l’estinzione oppure di contenere sostanze dannose (come metalli pesanti) che invece trovi spesso nei pesci pelagici di grandi dimensioni, come il tonno.
Acciuga, palamita, sarda, murice: sono i cosiddetti “pesci poveri”, poveri da un punto di vista commerciale, precisa Luigi, e che però hanno molto da offrire a livello organolettico e anche culturale, perché ci ricordano che c’è tutta una varietà in mare che viene dimenticata spesso dalla grande distribuzione e anche dai menù dei ristoranti.
E poi c’è la taglia minima: il fatto che il pesce può essere pescato solo se ha raggiunto una dimensione e un’età che gli ha permesso di riprodursi abbastanza da garantire, nel complesso, la sopravvivenza della specie. “Ad esempio — mi spiega Luigi — un’alice ha un ciclo di vita di 5–6 anni, se la peschi fino a 2/3 anni riduci drasticamente la sua capacità riproduttiva e interrompi precocemente la catena alimentare per le specie per cui l’alice è un nutrimento. In teoria il rispetto della taglia minima è un requisito richiesto dal Ministero, ma di fatto non c’è nessuno che controlla, né al momento dello sbarco né in pescheria.” E io penso ancora al vino: a quando si spinge la vite a produrre molto e si finisce per indebolirla, oltre che ottenere grappoli di qualità più bassa.
Su questo Luigi è categorico: Manaide non acquista pesce sotto la taglia minima. Una scelta che ha i suoi rischi imprenditoriali, viste le condizioni generali dei nostri mari. “Qualche volta è successo — ammette – che siamo rimasti senza una specie, perché magari era stata pescata troppo intensamente negli anni precedenti. Per cui capita che la gamma di prodotti cambi da un anno all’altro, ad esempio nel 2017 non abbiamo avuto moscardini e telline, entrambi sotto misura.” E del resto questo è il rischio che si assume chiunque lavori a stretto contatto con i cicli naturali, facendosi da soli carico delle difficoltà, perché il mercato è sordo all’argomento.
Il pesce arriva a Manaide da un’area di mare ben circoscritta, tra Ponza e Fiumicino, con Anzio in mezzo. “Questo ci permette — spiega — di avere il pesce in laboratorio un’ora dopo che è sbarcato a terra e tre-quattro ore da quando è stato pescato. Quando è così fresco, il pesce ha anche dei colori che in pescheria non vedi mai, ad esempio le alici sono turchine. E per concretizzare questo radicamento territoriale, oltre alla sotto zona di pesca Fao e al lotto di produzione, abbiamo deciso di inserire su ogni barattolo il nome della barca che li ha pescati e la località di pesca.” Che nel caso degli sconcigli con cui mi farò ben presto una spaghettata sono: il peschereccio Circe e il mare di Anzio.
Ed eccoci tornati al terroir. Per domandarci ancora: è forse tempo di pensare i fondali marini come dei pascoli, che determinano il sapore del pesce e che per questo vengano tutelati con tecniche di pesca non invasive? Luigi risponde con qualche esempio: “prendiamo le specie stanziali. Quello che abbiamo visto è che che nella zona ponente di Anzio i murici sono di dimensioni quasi doppie rispetto a quelli della zona di levante, e la stessa cosa avviene con i polpi. E una cosa simile accade con le alici: quelle che stanno più in profondità, lontane dalla costa, smettono di essere turchine e diventano più scure, quasi nere a volte. È inevitabile che il fondale dove il pesce vive e mangia influenzi la sua forma e anche il suo sapore. Dalle mie parti si ricorda spesso che Plinio celebrava il polpo di Anzio come il più buono dell’Impero Romano. Noi stessi abbiamo fatto un esperimento quest’anno, confrontando alici della nostra zona con altre siciliane. Sottoposte alla stessa lavorazione, con gli stessi ingredienti, quelle siciliane rimanevano più “sardose” mentre quelle di Anzio avevano una carne più fine e delicata, erano molto diverse.”
Però il problema resta, perché questa artigianalità, questa diversità di fondali e di sapori, la possiamo raccontare quanto vogliamo, ma non abbiamo ancora le categorie per descriverla. La nostra grammatica del gusto per quanto riguarda il pesce è molto primitiva, e su questo Luigi, che è molto più esperto di me, è d’accordo con me. Ecco un’altra ragione perché il vino è furbo, perché è riuscito a costruire una tassonomia di sapori, una griglia di parametri che se non hanno democratizzato il gusto (non l’hanno fatto) hanno dato qualche appiglio a tutti per poter risalire dal gusto al terreno, dal gusto alla sua fabbricazione. Mentre per il pesce, l’unica leva facile per attribuire la qualità resta quella del prezzo, ed è una leva che non sempre dice il vero. Quindi ben vengano esperienze come Manaide, che sono un primo ABC per sensibilizzare sul fronte dei territori e cominciare a esercitarsi coi sapori.
Può esserci un terroir anche per il pesce? – Erised Magazine